Ne parliamo con luciano Ferrari, prete illasiano. Ordinato prete nel 1979, ha svolto gran parte della sua missione a contatto con il dolore dell’uomo: dal carcere alla casa di cura, dando vita a gruppi di auto-aiuto. Le testimonianze raccolte nel libro “Geografia della sofferenza”, che verrà presentato anche a Illasi il 24 febbraio.
Eccoci a parlare di un altro illasiano in giro per il mondo. Questa volta il “mondo” non è l’Africa, non è il Brasile. E’ un mondo molto più vicino a noi, alla nostra valle: poca strada di mezzo, ma, come vedremo, è pur sempre un mondo “altro”, meta di un viaggio che non è misurato in chilometri ma in profondità: di empatia, riflessione, fede, solidarietà ed altro ancora.
Parliamo di Luciano Ferrari, nato e cresciuto a Illasi, classe 1954. Ordinato prete proprio quarant’anni fa (celebra quest’anno l’anniversario), alla giovane età di 24 anni, comincia, come tutti i novelli sacerdoti usciti dal seminario maggiore diocesano, con le prime esperienze parrocchiali: vicario prima a Cerea, Monteforte, poi in città al Duomo, quindi a Negrar, poi parroco a Verona, in Borgo Roma nella parrocchia di San Matteo. Questo nel primo periodo. Poi, il percorso tra diverse parrocchie si interrompe: seguono otto anni come cappellano nel carcere di Montorio, quindi, dopo un’altra esperienza come parroco a Poiano di Valpantena, don Luciano diventa cappellano della Casa di Cura Santa Giuliana, svolgendo, nel contempo, le funzioni di parroco nella vicina piccola parrocchia di San Mattia.
L’ultimo incarico è recente, di qualche mese fa: consigliere spirituale dell’Associazione “La Nostra Casa”, a San Benedetto di Lugana, vicino a Peschiera, un insieme di strutture a carattere residenziale e diurno che ospitano persone con varie forme di disabilità. Si tratta di una realtà d’eccellenza nell’ambito della disabilità, fondata da un prete, don Bruno Pozzetti, venuto a mancare l’altr’anno.
Durante tutti questi anni, inoltre, don Luciano si fa promotore di gruppi di auto-aiuto, composti da persone che devono elaborare un forte dolore, come può essere un lutto causato dalla perdita, magari improvvisa, di una persona cara. E’ evidente, quindi, che, ad un certo punto, il percorso di don Luciano si fa più intimo, imbocca le vie, difficili e tortuose, delle sofferenze dell’animo umano: quelle di chi è rinchiuso in carcere, di chi deve curare in una struttura le sofferenze della propria psiche, di chi non è nè in carcere nè in ospedale ma è rinchiuso in quel buco profondo dove lo ha spinto il dolore indicibile della perdita di una persona cara, addirittura di un figlio.
Don Luciano sente che, come prete, può cercare di creare una sua “parrocchia”. Sente di farne già parte, perchè alcune vicende della sua vita hanno segnato anche lui. Ma lui è prete ed evidentemente ciò non è secondario o marginale: può diventare la sua missione e si mette a disposizione, in ascolto.
E poi, dopo anni di esperienze, pensa che può essere utile diffondere alcune testimonianze raccolte, che la condivisione può passare anche attraverso la loro diffusione tramite un libro.
Nasce così “Geografia della sofferenza”, un volumetto che offre al lettore esperienze vissute e raccontate dagli stessi protagonisti, accompagnate da una selezione di citazioni di frasi e riflessioni. Ne parliamo con lui, nei locali in cui lo ospita la parrocchia della Croce Bianca, a Verona, dove vive quando non è a San Benedetto di Lugana con le persone disabili della Nostra Casa. E’, per chi scrive, l’incontro con una persona persa di vista da tantissimo tempo, alla quale mi legano tuttavia ricordi, sia pur lontani, di anni ed esperienze comuni.
Quindi, don luciano, possiamo dire che sei stato, e sei, un prete, attento in particolare a chi soffre? si tratta di un incarico ricevuto o di una scelta?
“Si è trattato di una scelta personale, che ovviamente parte da un’attenzione che penso di aver sempre avuto nei confronti delle persone che soffrono, e più in generale di coloro che vengono definiti “gli ultimi”. Questo anche quando svolgevo il mio ministero nelle parrocchie. Vicende familiari contraddistinte da eventi dolorosi mi hanno indotto a sviluppare maggiormente questo aspetto della mia persona. Maturato questo modo di sentire, mi sono ritrovato a pensare di fare una scelta di tipo radicale, un’esperienza totalizzante che mi coinvolgesse in modo più pieno, non parziale. Così, quando nel 1998 il cappellano del carcere chiese un avvicendamento, mi ritrovai pronto a prendere il suo posto”.
la vicinanza con le esperienze di dolore ti ha comunque coinvolto in modo particolare anche durante gli incarichi come vicario o parroco.
“Certo. I gruppi di auto-aiuto sono stati, e sono, un’esperienza molto importante: si tratta di persone che affrontano insieme situazioni di dolore. Il mio compito è quello di cercare di fungere da sostegno in questo percorso di elaborazione della sofferenza che, come nel caso particolare della perdita di un figlio, può diventare veramente straziante. Da queste esperienze nasce l’idea del libro, della raccolta di testimonianze”.
una cosa che ho trovato interessante, che viene da te ribadita nella presentazione del libro, è il distacco dalla concezione, spesso proposta da esponenti della Chiesa, della sublimazione del dolore, come elemento di esaltazione della fede. parli addirittura di “dolorismo”…
“Certamente, penso sia prorpio così. Anche quando ho cercato aiuto in occasione del dolore mio personale, non ho puntato alla sua sublimazione. Non penso che debba essere questa la strada. Nelle esperienze di auto-aiuto non lavoriamo in questo senso, non cerchiamo nè di sublimare il dolore nè di favorirne la rimozione, che è una delle forme di difesa più diffuse. Si cerca invece di lavorare a livello psicologico, consentendo a tutti di esprimere i propri sentimenti, accettando le conseguenti modalità di espressione, che possono essere, e spesso sono, di umana ribellione, di rabbia, con crisi che possono coinvolgere la stessa fede. Ci sta. Però la funzione del gruppo diviene mano a ma-no liberatoria, proprio grazie al rapporto con gli altri, alla comunicazione interpersonale, che diviene via via più profonda, cosicchè i rapporti tra i componenti del gruppo divengono più profondi, sino ad acquistare i connotati della vera amicizia, grazie proprio alla condivisione.
Quindi un persorso che potremmo definire più laico…
Si può dire così: il percorso è quello dell’umanità. L’umano non è necessariamente religioso. Si tratta di passare attraverso i momenti del dolore e arrivare all’accettazione, per poi aprirsi ai nuovi spazi della vita. Il punto fermo sta nello scoprire che la sofferenza ci aiuta a diventare più umani. Non si tratta quindi di esaltare il dolore, ma di passare, attraverso un percorso condiviso, alla sua accettazione, per riscoprire, con spirito nuovo, nuova voglia di vivere, di cogliere ciò che la vita ci può comunque offrire.
Quindi è importante aprirsi agli altri?
Certo. Chi soffre ha bisogno di umanità. In particolare ha bisogno di ascolto. Ascoltare è la cosa più importante. Oggi invece è quella che manca maggiormente. Oggi, tranne poche eccezioni, succede che se vuoi essere ascoltato devi addirittura pagare qualcuno; lo psicologo, il professionista. Anche come prete penso che sia anzitutto questo porsi a disposizione in modo recettivo, l’atteggiamento giusto. Se muore qualcuno in parrocchia il tuo compito di prete non è soltanto celebrare il funerale. La prima cosa da fare è andare a trovare la famiglia e ascoltare, solo ascoltare. Poi può venire il resto, quando si potrà anche proporre un percorso di gruppo, se il dolore si presenta difficile da superare. E’ così che sono nati i gruppi di autoaiuto.
ascoltare prima di tutto, quindi, senza cercare parole che forse non servono..
Certamente. E’ questa la cosa più improtante, non tanto assumere toni consolatori, cercare parole nel tentativo di alleggerire il dolore. L’esperienza dei gruppi, basata sull’ascolto, ha fatto sì che qualcuno abbia anche accettato di testimoniare in pubblico la propria esperienza. Così è accaduto, ad esempio, per una signora, che ha frequentato il gruppo dopo essere rimasta vedova, la quale mi ha accompagnato in qualche occasione nella presentazione del libro. Si tratta di una testimonianza forte, proprio perchè parla di un percorso di superamento del dolore, che può contribuire al diffondersi di queste esperienze di gruppo così importanti.